È con una certa perplessità che mi trovo a dover concludere questa serie di interventi, nell’ambito della IV edizione del Festival Sinopoli di Taormina. Credo di non aver altro di cui parlarvi che del mio ombelico, cioè del mio universo privato, che è ciò che incarna l’origine della mia creatività.
Dagli interventi di questo convegno emerge chiaramente il superamento delle frontiere - che erano soprattutto ideologiche e mai, in verità, artigianali - tra i vari atteggiamenti nei confronti della composizione: divisioni ormai superate dalla storia, dai fatti e dalla realtà della fruizione e del consumo musicale. Dai vari argomenti di cui si è dibattuto traspare bene, e mi pare importante sottolinearlo, come sia andata estinguendosi l’idea secondo la quale il compositore contemporaneo debba prima di tutto essere un intellettuale, o perlomeno debba esibire l’intellettualità del suo approccio verso la musica. L'aspetto intellettuale di un particolare progetto compositivo può, invece, essere veicolato dalla musica, e in qualche modo essere nascosto dalla musica: si inscrive nella musica che il compositore scrive in una maniera molto più profonda di quella esibita, per esempio, in un programma di sala, ideologicamente imposto come guida all'ascolto. Mi pare che oggi questo atteggiamento sia minoritario, oppure che venga considerato uno degli atteggiamenti possibili e legittimi - e non più l'unico praticabile - insieme a quelli che rivendicano un approccio “più naturale” al proprio fare musicale.
Per quanto mi riguarda, il mio fare musicale è naturale proprio in questo senso: ritengo che il mio universo privato abbia la stessa legittimità di un approccio teorico approfondito e/o sociologicamente al passo con i tempi della fruizione e del consumo musicale attuale in quanto è, il mio universo privato, elemento decisivo e creativo, motivatore e produttore della mia opera. Ragione per cui ritengo, ovviamente, di poterne parlare in pubblico, con tutta la discrezione, la delicatezza e la difficoltà che il parlare del proprio privato impone. Il fatto, poi, che, per motivi biografici e per la casualità che sempre instrada le occasioni del nostro lavoro, mi trovi in una posizione professionale particolare rispetto ai miei colleghi - avendo solo rari rapporti di lavoro con l'Italia e trovandomi soprattutto a comporre per i paesi d'oltralpe e d'oltremare - mi spinge ancor più ad avere una relazione autocritica con il mio universo privato, motore principale del mio lavoro: come, cioè, se fossi obbligato a guardarmi sempre a distanza, mettendo sempre in dubbio la validità di un atteggiamento che rivendica la “naturalezza dell'atto poetico”, confrontandomi con i protagonisti della realtà “straniera” nella quale mi trovo maggiormente a vivere e a lavorare. Una posizione, insomma, “cosmopolitamente privata”, risultato di un percorso che, ripeto, si pone l'obbiettivo di essere creativamente produttivo nei confronti del proprio lavoro, attento al proprio ombelico e suo scrutatore profondo e autocritico.
Ieri Salvatore Sciarrino ha parlato del “guardarsi dentro”, e Marco Tutino accennava alla valorizzazione delle componenti analizzate e riconosciute del proprio talento. Allora, se io guardo il mio ombelico e lo espongo in maniera molto discreta nella mia musica, e ritengo di rendere pubblici (nel senso di plausibilmente comunicativi) i suoni che produco, è proprio per questo: perché le mie risorse musicali stanno in questo guardarsi dentro piuttosto che nel dover rendere conto, necessariamente, di un “fuori”, che si tratti dell'attualità del panorama musicale, del dibattito culturale, delle mode o delle correnti alle quali ascrivere il proprio fare compositivo. Tuttavia l’attualità musicale m’interessa fortemente. Ciò che vorrei dire, senza nessuna presunzione, guardando il lavoro dei miei colleghi e il panorama musicale da questa posizione ritirata, tra l'ombelico del mio privato e il limbo del mio “esilio” dall'Italia, è proprio questo: se vent’anni fa – io, per motivi anagrafici, non c’ero, ma di poco – i compositori avevano maggiori occasioni per incontrarsi e discutere, anche in maniera più aspra di quanto abbiamo fatto noi in questi giorni e di quanto, in questi recenti anni, stiano facendo i compositori, e se sentiamo oggi la necessità di tornare a discutere tra noi, secondo me, è perché la storia ha fatto il suo corso, e l’ha fatto probabilmente in una direzione che ci può aprire le porte del domani – volendo tentare, con umiltà, di parlare di cosa faremo domani con il nostro lavoro di compositori, così come i moderatori di questo convegno ci hanno invitato a fare.
Sono due i fenomeni che a mio parere stanno manifestando un'influenza determinante sul panorama mondiale della musica di oggi.
Da un lato, la rivalutazione del cosiddetto mestiere, dell’artigianato, del savoir faire, della competenza specifica, che ha permesso di superare le frontiere tra bouleziani e spettrali in Francia, tra sciarriniani e donatoniani in Italia, e poi tra queste opposte tendenze dell'avanguardia o della post-avanguardia “pura” e il filone dei cosiddetti compositori neoromantici – poi diventati post-moderni – emerso, in Germania, in Francia, in Italia, nei paesi nordici e baltici, per rivendicare le priorità di un mestiere (certamente non fine a se stesso) che i “compositori della complessità” avevano dimenticato. Questa presa di coscienza da parte dei compositori va di pari in passo con l'aumentato livello di preparazione dei musicisti e la conoscenza molto più diffusa delle tecniche esecutive contemporanee (le cosiddette extended techniques), considerate un arricchimento utile anche per l’interpretazione del repertorio pre-novecentesco.
Credo che al giorno d’oggi nessun compositore si mostri indifferente di fronte al problema dell’eseguibilità di una partitura. Penso invece che tutti siano concordi sulla necessità di mettere – o rimettere – a proprio agio gli interpreti, nel rispetto delle esigenze della propria scrittura compositiva. Perché gli interpreti sono il tramite del pensiero compositivo e a essi vanno fornite indicazioni esecutive che consentano la comprensione di un pezzo, la sua realizzazione precisa in ogni dettaglio, la possibilità di un’interpretazione creativa e personale, lo svelamento del suo pieno potenziale - di cui non necessariamente il compositore è padrone (fenomeno, questo, implicito al processo di creazione musicale che lega indissolubilmente due protagonisti, il compositore e l'interprete, ciascuno dotato di una propria autonomia) -, il piacere che la conoscenza, lo studio e l'esecuzione di un brano devono comportare. Eseguibilità di una partitura, agio dell'interprete, semplicità o complessità della scrittura sono temi che si legano vicendevolmente in un rapporto intricato: partiture che si presentano “facili” sulla carta possono rivelarsi estremamente ardue all’esecuzione e nascondere insidie interpretative più importanti di partiture dichiaratamente complesse. Ma è indubitabile che la partitura sia il luogo in cui avviene l'incontro tra un interprete che possa esprimere la propria sensibilità nei confronti dell'opera eseguita e un compositore che la sappia stimolare: è questo che intendo per “mettere a proprio agio l'interprete”. Solo un interprete “a proprio agio” con le “difficoltà” che il pezzo da eseguire presenta può rendere il miglior servizio al compositore. La nuova attenzione data all'eseguibilità di una partitura ha permesso di superare gli steccati ideologici che riducevano il fare musicale ad una sorta di contabilità privata tra esecutore e compositore. Ancora una volta la prassi ha obbligato, in maniera a volte dolorosa ma sicuramente naturale, a procedere a una “selezione darwiniana” delle pratiche di scrittura, incrostate di automatismi e cliché rotazionali, segni di una cristallizzazione - ma direi meglio di una degenerazione - accademica e manieristica che la musica di oggi aveva subìto in nome di una divisione puramente ideologia tra le estetiche dominanti, i cui steccati possono oggi dirsi superati, in nome di un rapporto ritrovabile (se non ancora ritrovato) con gli interpreti, oltre che con il pubblico.
Il secondo fenomeno di cui vorrei parlare, secondo me ancora più determinante della rivalutazione del savoir faire e dell'artigianato compositivi nel superamento degli steccati ideologici da tempo cristallizzati, è dovuto alla storia geopolitica degli ultimi venticinque anni. Tutti i compositori, volenti o nolenti, devono ormai confrontarsi con le “altre musiche”: la musica pop, la musica di espressione orale delle culture popolari, la musica etnica e la variante “globalizzata” della world music, le espressioni musicali aventi valore d'identificazione sociale, le musiche di consumo, etc. La storia recente ha obbligato tutti - cittadini, artisti, politici, amministratori del bene pubblico e del bene privato - a rendersi conto che il mondo con cui ci si misura oggi è aperto, molto più grande dei confini di una nazione o di un continente, e in continuo movimento; e che oggi è possibile incontrare persone e culture prima sconosciute o considerate lontane; e che, proprio in virtù di questa lontananza o di questo diritto all'ignoranza di alterità culturali altrettanto legittime, si consentiva alla propria cultura d’origine di autoerigersi il piedistallo della sua presunta superiorità. Un fenomeno non nuovo, certo, che ha percorso nei secoli la storia della cultura e dell'arte; ma che oggi la realtà geopolitica del mondo ci impone di prendere in considerazione in tutta la sua evidenza. Cosicché, un po’ tutti i compositori sono stai costretti ad abbandonare o a rivedere un atteggiamento eccessivamente “purista” o “fondamentalista”, insomma, a far circolare un po' d'aria nella propria piccola torre d’avorio, e quindi a confrontarsi con le altre culture, o con altre modalità di espressione, senza distinzione tra “basse” o “alte” , dell'espressione artistica.
Ciò che è successo, per esempio, nell'evoluzione della mia musica, è secondo me sintomatico: il riconoscimento di un fenomeno che, nella dimensione sonora, aveva una propria forza naturale e che mi obbligava a far emergere un sostrato di contenuti che fino a qualche anno fa avevo sempre tentato di mantenere nascosto. Ne parlerò poco più avanti, citando alcune delle mie composizioni. Ma desidererei prima sottolineare l'importanza vitale di un fenomeno come quello che si è oggi soliti definire con i termini non del tutto appropriati di ibridazione, di metissage o di cross-over. Questo fenomeno ha percorso la storia della musica da sempre, poiché i compositori da sempre si sono confrontati con la musica popolare, ne hanno, in qualche modo e più o meno consapevolmente, utilizzato delle versioni trasformate e rese “colte”. Fino ad attingere a quelle radici con la coscienza storica e gli strumenti della etnomusicologia di coloro che nel momento in cui preservano il patrimonio della musica di tradizione orale rinnovano nello stesso tempo i fondamenti del proprio linguaggio musicale. Janacek, Bartók, gli esempi abbondano; e credo che compositori come Berio, e persino Nono, senza questo rapporto con le altre musiche non potrebbero esistere. Voglio dire che ciò che è successo nella società di oggi, è accaduto anche nel laboratorio dei compositori: nel rapporto tra cultura dominante e altre culture, queste ultime venivano “fagocitate” e gli apporti “altri” venivano abilmente, e un po' “neoimperialisticamente”, nascosti a tutto servizio di una poetica esclusiva e “purificante”. Oggi, questo rapporto sembra essersi rovesciato, e i contenuti marcanti dell'alterità sono piano piano venuti ad emergere nell'opera di ogni singolo compositore. Ed è cosi, tanto per fare un esempio universalmente riconosciuto, che Ligeti, pur essendo partito da altre posizioni, riscopre l’Africa e la complessità ritmica della sua musica etnica. Ed è cosi che oggi, dopo venticinque anni, forse, il confronto tra chi si proclamava neoromantico (bruttissimo termine!) e chi invece rivendicava la purezza dell’avanguardia, non ha più ragione di esistere: la storia non solo ci ha indicato una strada diversa, ma ci ha obbligato a prenderla.
I miei esordi nella composizione, che risalgono più o meno al 1983-84 (il mio primo pezzo ufficialmente riconosciuto, Die Aussicht, è dell’ ‘85), mi videro assumere una posizione non ideologica ma assolutamente cosciente e ponderata in favore dei cosiddetti “sciarriniani”, parte allora avversa ai “donatoniani”, la cui diatriba ha alimentato per anni il dibattito estetico italiano. Io prendevo posizione per gli “sciarriniani” non perché fossi allievo di Salvatore Sciarrino, o perché rivendicassi nel mio linguaggio musicale, in via di definizione, una qualche filiazione nei confronti della “cifra sciarriniana”, così riconoscibile da essere inimitabile, ma piuttosto per motivi d'indole personale e perché, soprattutto, trovavo che quella musica rispondesse meglio a questioni inerenti il mio gusto, e ad altre legate alla mia psicologia profonda. Nella ideologica divisione delle forze musicali in campo tra sciarriniani e donatoniani, rispecchiando in Italia la divisione allora corrente in Francia tra bouleziani e spettrali, Sciarrino significava anche Nono, e Scelsi, e il Ligeti prima dell'Africa. E, in una sintesi simbolica tra passato e futuro, Debussy e Webern: insomma il suono come parametro che sfugge alla categorizzazione linguistica fino ad allora vigente. Naturalmente sciarriniano, quindi, senza aver mai studiato con Sciarrino (e senza neanche aver mai studiato con Donatoni), ma attirato sinceramente da composizioni che rispondevano meglio a un'idea di musica che allora andavo maturando, basata sulla discrezione, sull'ambiguità percettiva e interpretativa, su una complessità non esibita, su una semplicità apparente che in realtà rivelava una profondità di senso e la sua quasi inafferrabilità da parte di chi ascolta. Abbastanza presto andai precisando la tavolozza di colori, di suoni e di tecniche strumentali che poteva servirmi a dire, molto naturalmente, le cose che volevo dire. Ma altrettanto spontaneamente, per una forza interna proveniente ancora una volta dal mio già citato ombelico, il mio personale e privilegiato periscopio sul mondo, mi sentii in dovere di reagire a questa tendenza, ad una facilità di definizione del proprio linguaggio musicale con il continuo tentativo di sovvertirlo, di andargli contro creandogli degli ostacoli tecnici ed estetici. Se già alla fine degli anni ‘80 potevo dire a me stesso, ambiziosamente, di avere trovato il mio modo di dire le cose in musica, già poco dopo, nell' ‘89-‘90, sentivo il desiderio di uscire da me stesso, di oltrepassare non solo l’avanguardia, come recita il titolo del libro di Armando Gentilucci che è stato citato ieri (ARMANDO GENTILUCCI, Oltre l'Avanguardia, un invito al molteplice, Edizioni Discanto, Fiesole, 1980) - una lettura fondamentale per me, qualche anno prima -, ma di essere io stesso molteplice, di non sentirmi prigioniero dei miei sogni e di abitudini compositive da me stesso appena messe a punto. Anche a questo è stato fatto cenno ieri: il compositore deve vigilare sul proprio operato, deve evitare di mettersi sul piedistallo di colui che si considera sorgente a prova di critica di un materiale musicale da proporre all'ascolto, ma deve anche essere ascoltatore attento, curioso e critico, del materiale sonoro che viene dal mondo, e quindi anche del proprio. Ecco perché, per combattere questa tendenza all’inviluppo creativo - fonte di gratificazione artistica basata sulla conferma della propria riconoscibile ma immutabile identità - volli da subito attivare dentro di me questa forza contraria, tendente alla destabilizzazione di una propria identità definita tramite l'assimilazione progressiva, in gran parte istintiva e spontanea, di tutto ciò che, eterogeneamente, le mie orecchie, i miei viaggi, l’arrivo di internet e di tutti gli altri strumenti della comunicazione mi potevano mettere a disposizione,. Unitamente all'apertura che ha iniziato a darmi, dal 2006, l'attività di insegnamento della composizione al Conservatoire Nationale Supérieur de Musique et de Danse de Paris, in una classe interamente multietnica (costituita solo per il 20% da studenti europei). Ciò che è successo è che gli elementi generatori del mio linguaggio musicale, dapprima volontariamente nascosti, sebbene indispensabili al suo sviluppo, dai processi compositivi adottati, sono poco alla volta emersi, e si sono resi manifesti nella loro eterogeneità, pur ambendo a costituire un tutto organico e coerente. Sono arrivato, quest’anno, [2008] a realizzare un progetto per cantante di fado, baritono, grande ensemble ed elettronica, intitolato Com que voz, che anche solo all’inizio del 2000 non sarei stato in grado d'immaginare, e che alla fine degli anni '80, quando venivo definito, mio malgrado, compositore sciarriniano, mai mi sarei sognato di fare.
Vorrei ora proporvi all’ascolto qualche estratto di tre composizioni, la prima del 2002, intitolata Godspell, la seconda del 2006, il mio secondo quartetto per archi, intitolato Six lettres à l'obscurité (und zwei Nachrichten), e la terza del 2008, la già citata Com que voz. Esse mi paiono testimoniare dell'evoluzione che ha consentito questo processo di emersione degli elementi eterogenei che nelle composizioni precedenti fungevano da materiale generatore da consumare, “nascondendolo” compositivamente, anziché da mostrare come risultato di un tutto organico.
Godspell è un ciclo di cinque pezzi per mezzosoprano e nove strumenti che mette in musica cinque brevi poemi di Philip Levine, un poeta americano nato nel 1928, pochissimo conosciuto in Italia ma assai importante negli Stati Uniti (Pulitzer Prize e National Book Award) che ho incontrato a Genova nell'ambito di una residenza presso la Fondazione Bogliasco-Liguria Study Center e che ha scritto per me questi testi. Il riferimento al gospel è esplicito, sia musicalmente (il materiale generatore della composizione è il gospel In the sweet by and by, celeberrimo negli USA, in una versione jazz), sia testualmente: la buona novella, che in realtà è una cattiva novella, rovesciata di senso e annunciata dalla televisione. La terra promessa cantata da In the sweet by and by, che la buona novella dovrebbe annunciare, è in realtà una terra desolata annunciata dalle descrizioni ironico-apocalittiche delle poesie di Levine e che l'uomo raggiunge dopo avere distrutto, in vita, le risorse e le bellezze della terra su cui ha vissuto. Forse questo è il pezzo in cui, per la prima volta, mi sono seriamente confrontato con il problema dell’ironia in musica, intendendo l'ironia come strumento moltiplicatore delle possibilità d'interazione tra i componenti di una materia disomogenea, le cui differenze e contrasti diventano sorgente di un ambiguità del senso.
Il gospel In the sweet by and by percorre interamente i cinque brani di Godspell: nel primo e nell'ultimo è sotterraneamente presente, nel secondo appare improvvisamente e viene progressivamente nascosto, fino a scomparire del tutto nel terzo brano, che mette in musica la poesia intitolata, appunto, Gospel, nella quale In the sweet by and by è presente in spirito. Infine nel quarto brano si rivela poco a poco fino alla sua citazione letterale, improvvisamente troncata dalla parola end che conclude la poesia di Levine.
Lo svelamento dei materiali costitutivi della composizione permette inoltre di arricchire il gioco dei registri espressivi del pezzo e le sue modalità di fruizione, basti bastare al contrappunto che si stabilisce tra il testo esplicito di Levine, cantato dal mezzosoprano, ed il testo implicito veicolato dalla citazione di In the sweet by and by.
Nel quartetto per archi, Six lettres à l'obscurité (und zwei Nachrichten), l'eterogeneità è dichiarata e resa esplicita dal progetto formale che regge la composizione: un solo movimento organizzato in otto sezioni stilisticamente diverse, sei principali composte su una lettera alfabetica (l'insieme delle quali compone un nome) e due momenti di “arresto lirico”, due Lieder ohne Worte che dividono la suite in tre parti di due brani ciascuna. Il secondo numero è tratto dal mio ciclo per ensemble vocale In dir, i due Nachrichten sono tratti da un altro ciclo vocale, tre duo per mezzosoprano e tre diversi strumenti solisti, intitolato Drei Aster Lieder. Ma è in particolare il settimo numero (la lettera ‘R’) a mostrare con più evidenza le caratteristiche di eterogeneità di questa composizione: si tratta infatti dell' “orchestrazione” integrale del Recercar chromatico post il Credo di Frescobaldi, già utilizzato da Ligeti per la sua Musica ricercata. Uso volutamente il termine “orchestrazione” perché l'uso massivo delle extended techniques per gli archi permette di creare una palette sonora altrettanto variegata di quella dell'orchestra, come se, appunto, per l'orchestra questo brano fosse stato trascritto. L'opera di Frescobaldi è reinterpretata come una ricerca (...recercar) altrettanto aperta, utopica e possibile (...chromatico) dopo la morte di Dio (...post il Credo): ecco perché non solo di una particolare orchestrazione si tratta, ma anche del graduale e progressivo trattamento in armonici artificiali di quinta dell'intero testo frescobaldiano che ne comporta una distorsione e una corrosione interna, sempre più invadenti fino a renderlo pressoché irriconoscibile. Il materiale originale è reso evanescente nella sua sonorità al punto che la comprensione del gioco contrappuntistico delle altezze si fa sempre più difficile, e per di più è proiettato per frammenti sempre più estesi verso l'acuto, con un intervallo di trasposizione di quinta (dovuto all'impiego della tecnica degli armonici) che falsa i rapporti modali su cui il pezzo di Frescobaldi è costruito. Un ulteriore trattamento, che va al di là della lettera frescobaldiana, prevede di far galleggiare il contrappunto originale sopra un flusso continuo di glissandi di armonici artificiali discendenti eseguiti volta per volta, con una tecnica di tipo particolare, dagli strumenti non impegnati dal contrappunto, creando l'illusione di un loro prolungamento all'infinito. Ciò per meglio integrare il “corpo estraneo” del pezzo di Frescobaldi (l'intero brano, non una sua citazione) dentro il brano di un altro compositore, creandogli una cornice straniante, ed utilizzando a questo fine elementi ricorrenti nel corso di tutta la composizione, come il glissando e gli armonici artificiali, combinati in un gesto espressivamente caratteristico.
In Com que voz, infine, per due cantanti, venti strumenti ed elettronica, l'approccio pluristilistico è ancora più marcato, quasi a diventare programmatico. Nel corso di un'ora e venticinque minuti di musica, due cicli vocali si alternano senza mai sovrapporsi, salvo in unico numero: il ciclo per cantante di fado presenta, rielaborati, fado tratti dal repertorio della celeberrima Amália Rodrigues; l'altro ciclo, per baritono, presenta una scelta di sonetti del poeta portoghese del XVI secolo, Luis Vaz de Camões. Il tutto è accompagnato da un ensemble che include tra i suoi strumenti anche la chitarra portoghese, la chitarra classica, il cimbalom, la fisarmonica e l’elettronica in tempo reale (realizzata all’IRCAM). Si tratta di un viaggio all'insegna della discontinuità scandito in ventiquattro tappe, tutte ecletticamente diverse; un lungo recital di canzoni nel quale si passa dal registro espressivo “popolare” dei fado, sebbene continuamente trasfigurato, reinterpretato, moltiplicato nella sue valenze espressive dal trattamento soprattutto timbrico riservato all'ensemble, a quello “alto” della musica contemporanea, a cui è affidata l'altra metà dei brani, quelli che mettono in musica i sonetti di Camões, ognuno dei quali è accompagnato da un raggruppamento strumentale diverso e presenta una scrittura musicale differente, come se ognuno di essi fosse stato scritto da un compositore diverso. A questa continua diversificazione delle modalità tecnico-espressive si aggiunge una sollecitazione particolare, data dalla forma ad alternatim, con cui vengono presentati i fado ed i sonetti, che guida e condiziona psicologicamente l'ascolto, conferendogli coerenza unitaria e forza straniante nello stesso tempo. Ogni sonetto, messo in musica secondo i princìpi della scrittura contemporanea, viene ascoltato con il souvenir emotivo del fado che l'ha appena preceduto; e, viceversa, ogni fado, tonale e tradizionale nella sua scrittura, anche se estremamente rielaborato dal punto di vista timbrico ed espressivo, non può che essere ascoltato attraverso il souvenir emotivo del brano di musica contemporanea che lo precede, di segno opposto a quello del fado. Una dimensione espressiva “bassa”, per preparare la fruizione di un brano di musica contemporanea “alto”, ed una dimensione espressiva “alta” per accogliere l'ascolto di un fado, per definizione “basso” (i termini “alto” e “basso” sono qui impiegati per semplicità esemplificativa).
Una nota per concludere: i tre pezzi di cui ho parlato non esauriscono il quadro degli atteggiamenti compositivi che ho inteso adottare. Nell'ambito della mia produzione e compositiva, approcci di tipo “inclusivo”, miranti alla composizione di opere “visibilmente” polimorfe, convivono con altri di tipo “esclusivo”, in base ai quali l'opera finale si presenta “neutra” e priva dei riferimenti che l'hanno costituita, o “pura”, “astratta”, “oggettiva” nei suoi procedimenti costruttivi o negli elementi che l'hanno generata, oppure suscettibile di essere interpretata come estremamente evocativa, carica di riferimenti nonostante la sua genesi costruttiva di tipo neutro. Vorrei che l'insieme delle mie composizioni costituisca un panorama estremamente ampio, ricco e diversificato, marcato dalla vitalità di diversi atteggiamenti creativi resi coerenti da un comune denominatore espressivo, così come ho cercato di spiegare nell'articolo On inexpressivity (and eclecticism): Suspended expressions – an ambiguous approach toward an old idea (2008).
S.G.
Ottobre 2008
in Le vie del comporre, domani. Atti del convegno 2008 , Giuseppe Sinopoli Festival, Taormina Arte, 2009, pages 85-89)