Mi considero un compositore puro, non nel senso della purezza delle mie fonti di ispirazione, che sono invece molteplici ed eterogenee, o nel senso di voler rivendicare un’assolutezza negli esiti della mia ricerca artistica (lungi da me), quanto nel modo in cui concepisco il mestiere (o meglio “la missione”) del compositore. Scrivo musica e insegno la composizione, e concepisco entrambe come un’espressione del pensiero – con una forte volontà di dire e testimoniare le aspirazioni del nostro tempo – facendo tesoro della storia e immaginando di agire sul presente per lasciare tracce il più possibile “pulite” ed efficaci al futuro dell’umanità. Desidero aggiungere che non ho mai avuto incarichi di organizzazione o di direzione artistica: li considero un’attività certamente legittima, ma solamente complementare a quella precipua dello scrivere, del riflettere sulla propria ricerca e del trasmettere la propria esperienza.
Non c’è nessuna presunzione in questo atteggiamento, ma solo la rivendicazione dell’importanza dell’opera – delle opere – sulla figura o sulla personalità dell’artista. Ad essa contribuiscono spesso, soprattutto in questi tempi dominati dal marketing, attività di tipo più o meno mondano (utili comunque alla diffusione e alla conoscenza di un fenomeno come quello della creazione musicale, oggi sempre più messo in discussione da modelli di consumo culturale di tipo industrializzato), ma a mio parere di importanza secondaria rispetto al contenuto espressivo e alla sua messa in forma artistica di un’opera musicale.
L’accento verte per me sulle singole opere che possono, oppure non, creare un percorso tale da delineare di nuovo la figura di un artista a tutto tondo e di valore indiscutibile, non tanto sul contrario: non condivido cioè la certezza o la necessità (psicologico-sociale) del genio, inevitabilmente produttore di capolavori, a cui una visione superficiale e rettilinea della Storia e del progresso (sempre più succubi della tecnologia e del mercato) ci ha abituato. Preferisco dire che in questi tempi e spazi dominati dalla globalizzazione la figura dell’artista si parcellizza e anonimizza: di fronte al moltiplicarsi degli artisti e degli orientamenti estetici valgono i singoli esiti, a volte riusciti, altre volte insignificanti. E su questo atteggiamento, e su questi singoli esiti, vorrei invitare a riflettere con il mio lavoro, senza apriorismi ideologici o, spesso inconsciamente, mercantilistici. Una storia da ricostruire senza gli schematismi e le certezze del passato, ricollegando i fili che dal passato ci portano ai nostri giorni e ci possano proiettare verso un futuro che dia senso e funzione a un’attività artistica diventata marginale, o resa artificiale da una serie di meccanismi di “protezione” culturale che la spingono sempre più nel ghetto di una pratica elitaria
Così mi sento di dire che ogni compositore radicale ha sempre avuto una coscienza della Storia e del rapporto che andava a infrangere e a ricostituire con essa. Vale per tutti i grandi artisti del passato lontano e recente, e tra gli ultimi, dopo quelli delle avanguardie storiche e i maestri recentemente scomparsi (Nono, Grisey, Ligeti, Stockhausen, Boulez), annovero Helmut Lachenmann. Le opere che ci hanno lasciato queste figure emblematiche, in virtù della loro forza intrinseca, ci insegnano che l’azione dialettica e distruttiva delle convenzioni sociali, o delle abitudini culturali nelle quali esse si esprimevano, insieme a quelle del linguaggio, sono sempre intervenute costruttivamente sullo sviluppo storico e sulla modalità della loro stessa fruizione. La portata rivoluzionaria di un’opera è dunque inseparabile dal mistero inspiegabile che essa contiene, dove l’artista è in parte
deus ex machina e in parte veicolo stesso della forza di questo mistero che spinge, opera dopo opera, a cambiare il mondo.
“Rivoluzionaria” è la musica di Johann Sebastian Bach, sebbene nel suo tempo egli fosse considerato un accademico; e “conservatrice” (capace cioè di conservare la tradizione) è la musica di Arnold Schönberg, ancora oggi considerato da una grande fetta di pubblico un compositore inascoltabile perché astrattamente in rivolta contro la tonalità.
Per questo preferisco sostituire il termine “radicalità” (di un atteggiamento) con quello di “creatività” (di un’opera). Il primo crea steccati e false certezze, il secondo porta l’espressione artistica e la fruizione culturale a crescere e a modificarsi, agendo sul pensiero: che è costretto a confrontarsi con i dubbi e i misteri di un’opera e con i collegamenti da dover istituire tra opere singole – di cui si ha una vera e profonda coscienza – non più inquadrate da un sistema ideologico di riferimento.
Le mie sembrano considerazioni superate, ora che viviamo i tempi anti-ideologici della fine della Storia, della globalizzazione e della democratizzazione culturale a tutti i livelli. Eppure ancora oggi si vuole dividere gli artisti in base alla giustezza del loro percorso o della loro posizione (estetica, se ancora la si può considerare tale, quando sembra più volersi basare su concetti di tipo promozionale, parole chiave, loghi di un
logos a basso livello), anziché sulla forza delle singole opere: le quali possono essere più o meno riuscite, inutili o foriere di futuro, o ricche di una forza da indagare, comprese o incomprese, tutto ciò indipendentemente dal marchio di fabbrica del loro autore. Credo che le considerazioni che seguono contribuiranno a precisare meglio il mio pensiero che, lo ripeto, vorrei esprimere con modestia e rispetto del lavoro dei “colleghi”, del passato come del presente.
La mia posizione (non una conclusione da “mostrare” nella musica che scrivo, ma la tappa di un cammino che le opere di ogni compositore articolano e sviluppano) è la seguente: una composizione è creativa se testimonia e fa agire in un rapporto del tutto particolare le due dimensioni che nell’arte musicale si incontrano: quella acustica (legata alla percezione) e quella linguistica (legata all’ascolto). Nello scritto
Raisons et occasions dans le choix d’un poème qui devient musique [1], sostengo la tesi che i parametri di una composizione musicale non fanno altro che strutturare le possibilità d’incontro tra queste due dimensioni in rapporto l’una con l’altra secondo diverse modalità. Nel corso della storia, il mondo acustico (il
soundscape) è evocato dalla dimensione prettamente culturale e codificata del linguaggio musicale, che vorrebbe aderire allo stimolo sonoro in maniera mimetica, trascendendo il codice linguistico; viceversa, la dimensione sonora e naturale dei fenomeni sonori sembra alludere a leggi linguistiche codificabili culturalmente. Entrambe le dimensioni sono intrecciate profondamente secondo criteri di stile, di gusto, di conoscenza tecnica di ogni autore, e sono altresì legate allo sviluppo delle tecniche di scrittura e di liuteria strumentale proprie al loro tempo, scambiandosi ambiguamente funzioni ed effetti: la dimensione linguistica disseminandosi in quella acustica, e viceversa; il progresso (di un oggetto sonoro inaudito, per la prima volta portato nel dominio strumentale) trovandosi a convivere con la tradizione (delle prassi compositive ed esecutive consolidate).
Qualcuno, fra gli artisti e gli analisti, sembra volere tracciare sviluppi inesorabili, secondo i quali dopo la modalità, la tonalità, l’atonalità, in questi anni recenti si stia esplorando la dimensione della “sonalità”. Io trovo che questa idea per la quale ciascuna dimensione compositiva supera l’altra, escludendola, sia una posizione riduttiva dettata più da motivazioni di tipo auto-promozionale (per quanto riguarda gli artisti) o di semplificazione divulgativa (per quanto riguarda gli analisti o i programmatori musicali); sia cioè un altro modo per ristabilire divisioni e steccati, in nome di una verità o di un criterio di modernità che prescindono dalla valutazione profonda dell’esito artistico di ogni singola opera. Questa impostazione, in cui l’approccio compositivo risulta puramente legato al presente e immemore della Storia, mi pare inaccettabile: a me interessa invece una concezione che
integri tutte queste dimensioni, in modo tale che la Storia viva attraverso l’assimilazione dei parametri che ogni sistema (prima quello modale, poi gli altri) ha messo a punto. Solo così la forma assolve al ruolo essenziale di assimilare creativamente il passato.
Nella musica contemporanea da anni si parla, con una certa dose di ambiguità e di confusione, di “suono” come parametro esclusivo della scrittura: da qui il proliferare di partiture “soniche” o “bruitiste” e l’uso esteso delle tecniche strumentali “avanzate” per creare una dimensione sonora particolare talmente peculiare da rendere secondari gli altri parametri e quello più generale della forma, per me invece molto importante. Il compositore che si riduce ad essere
sound designer, l’ascolto che diventa percezione fenomenologica, la tradizione storica e la propria esperienza culturale personale che si annullano in favore della contemplazione dell’istante, la memoria dell’ascolto che non interagisce più con l’attività della percezione trasformando l’ascolto in un viaggio immaginativo e la temporalità voluta dal compositore in un tempo vissuto pienamente dall’ascoltatore.
Divertissement,
wellness, seduzione invece di conoscenza. Sedazione invece di stimolo al pensiero.
Anche la tecnologia applicata a un progetto musicale sembra volere perseguire lo stesso scopo: garantire da un lato la “modernità” di un’opera o di una pratica compositiva, e dall’altro creare un ambiente che connoti la percezione musicale in una maniera totalizzante. Il ricorso alla tecnologia nell’ambito di un processo compositivo andrebbe invece inteso in un senso ben più ampio: rappresenta un grado di lucidità superiore e permette un affinamento dei mezzi di ricerca nella formalizzazione delle visioni e delle intuizioni sonore dell’artista. È per me una forma di “scrittura”, uno strumento che al pari della scrittura tradizionale consente all’artista una presa sulla materia oggetto delle sue esplorazioni e dei suoi tentativi di apprensione capace di sviscerarne le logiche interne e di svilupparle ulteriormente in un’articolazione formale estesa. È un modo ancora più raffinato ed efficace di imbrigliare la libertà e di orientarla in un percorso di conoscenza. Non è certamente una facile scorciatoia per creare un
sound “moderno” (e nell’idea di
sound la nozione di spazio si fonde diventando del tutto secondaria) o la dimostrazione appariscente del “nuovo” incarnato da una composizione musicale, in considerazione del fatto che oggi la modernità e l’idea di progresso si esprimono principalmente attraverso lo sviluppo tecnologico.
Vorrei però a questo punto allargare la riflessione alle modalità di diffusione della musica contemporanea e al rapporto con il pubblico, perché questo costituisce implicitamente l’orizzonte con cui interagiscono i meccanismi creativi. La situazione per un compositore di oggi, in Italia in particolare, è difficile: mancano i canali per la comunicazione con il pubblico e le istituzioni lirico-sinfoniche programmano sempre meno musica contemporanea. Questo dipende da motivi antichi: la mancanza di una vera e organica educazione artistica e musicale nell’insegnamento scolastico, le carenze strutturali nell’ambito dell’insegnamento musicale a livello professionale; una diffusione estremamente irregolare sul territorio delle opportunità di ascolto dal vivo della musica cosiddetta d’arte; una mentalità diffusa e persistente che porta a considerare la musica solo ed esclusivamente come
divertissement e rito sociale slegato dai suoi contenuti intrinsecamente artistici. E per motivi contingenti e aggravati dalla situazione politico-sociale-culturale generale di questi ultimi anni: diffusione pervasiva dell’industria culturale che riduce qualsiasi prodotto artistico – libro, disco, film, concerto – a prodotto da vendere, gadget e surrogato dell’arte esperita in maniera diretta; introduzione del marketing a tutti i livelli (fino a sostituire la riflessione artistica e i problemi della comunicazione musicale con strategie e obbiettivi di tipo mercantilistico-pubblicitario); costi di produzione musicale (concerto, opera, multimedia) considerati eccessivi in un’epoca di crisi generale in cui la valutazione di un risultato è esclusivamente economica e il numero degli operatori coinvolti elevato. La musica è un fenomeno collettivo, dal punto di vista della sua produzione come da quello della sua fruizione: nell’attuale logica dominante che sempre più richiede un’ottimizzazione del rapporto tra costi di produzione (dell’evento o dell’oggetto artistico proposti) e beneficio quantitativamente valutato (numero persone raggiunte, numero biglietti venduti), il beneficio apportato alle coscienze e alla conoscenza è del tutto trascurato. Vorrei aggiungere che, sotto questo punto di vista, anche fra i compositori (soprattutto quelli più giovani, ansiosi di farsi conoscere ed entrare in un sistema che regali loro “visibilità”) si preferisce abdicare alla missione di una ricerca creativa di alto livello artistico e culturale (dialetticamente condivisa con un pubblico partecipe), nascondendosi dietro l’idea anacronistica del grande artista, insondabilmente convinto del proprio valore a prescindere dagli esiti puramente artistici del proprio lavoro e della necessità di occuparsi della sua “immagine” attraverso gli strumenti del marketing. Noto, per esempio, che facebook è colmo di affermazioni circa la definitività di capolavori autodefinitisi tali e di fenomenali successi di pubblico. In un’epoca in cui il consumatore di musica (praticamente tutto il genere umano) occidentale o occidentalizzato ha perso coscienza del valore storico (e intrinsecamente artistico) di un vero genio del passato antico o recente (Bach e Schönberg, tanto per fare due nomi), ecco che viene proclamata l’importanza del simulacro del grande compositore di oggi, altrettanto grande (a prescindere) dei suoi storici predecessori così che si possa ancora affermare l’esistenza di una tradizione o del bisogno di una “grande arte”. Nello stesso tempo si eleggono i cantanti a poeti laureati (il caso recente del premio Nobel a Bob Dylan) per sconfiggere l’elitarismo della cosiddetta “arte colta”.
Per quanto riguarda le avanguardie del secondo Novecento, ciò che resta di quell’esperienza è per me la volontà propria agli artisti che si sono posti il problema della ricerca e della sperimentazione nei giusti termini, di dovere sempre avere a che fare con le problematiche della Storia e della percezione, e con la fisiologia di una prassi musicale a misura umana (che si tratti di musica prodotta acusticamente o elettroacusticamente). Né più né meno come nel passato, quando l’attività di ricerca e di sperimentazione di un artista era considerata parte integrante del suo lavoro, anche se sociologicamente non inquadrata nei termini di un’avanguardia collettiva. In altri termini, è ancora valida la convinzione che il fine ultimo è comunicare conoscenza attraverso un mezzo che ha un valore ludico (ma non fine a sé stesso). Dunque, l’operare per il progresso della civiltà cui si appartiene, non tanto per una positivistica e assurda idea di “progresso” dell’oggetto artistico, come se lo si dovesse ridurre a un mezzo tecnologico in continua evoluzione, ma alla crescita civile di una comunità. Oggi, purtroppo, assistiamo piuttosto alla tendenza contraria: la musica viene considerata sottofondo di altre attività, coadiuvante psicologico, alteratore socialmente permesso di stati di coscienza; ma non finalità ultima in grado di produrre un beneficio primario: quello, cioè, di un’aumentata coscienza e conoscenza individuale e collettiva, possibilità che sovente è disconosciuta alla musica se la si intende come mero
entertainment.
In rapporto all’idea di “colto” in musica (non voglio esprimermi per conto di altri colleghi e amici, di alcuni dei quali conosco peraltro le frequentazioni musicali), per me esiste ancora un rapporto elettivo con la musica classica. Non è un punto di vista elitario: l’arte musicale, o la musica cosiddetta d’arte, erede di una certa tradizione che assegna alla scrittura un ruolo importante (e di conseguenza alla teorizzazione pre o post compositiva e parallela allo sviluppo delle prassi interpretative ed esegetiche) si esprime attraverso questo tipo di mezzi, che tuttora (e forse mai come ora) si insegna scientificamente nelle università e nelle accademie. Ciò non impedisce di avere un rapporto con la musica, con tutta la musica, con i generi musicali non classici, con pratiche di ascolto e d’interazione con la musica in generale, molto più pervasivo, istintivo, irrazionale a più livelli, quando tutto ciò nutre la propria ispirazione o i desideri del nostro corpo musicale. Ma ritengo che qualsiasi tipo di spunto creativo (e non esistono, per me, spunti creativi illegittimi o di secondaria importanza) debba inevitabilmente passare attraverso il filtro della scrittura (della scrittura in senso lato), cioè – come direbbe il compositore Wolfgang Rihm – di uno strumento per “fissare la libertà” perché altri, e in primo luogo i musicisti interpreti, la vivano e la facciano vivere. La “musica classica” è un patrimonio di opere d’arte e di prassi di pensiero (non una serie di pratiche accademiche e di riti mondani). È in questo senso che con esse concepisco il mio rapporto elettivo. È attraverso di esse che istituisco il mio rapporto con il mondo della creazione: nella più grande libertà e curiosità del voler conoscere, che è, come si sa, l’atto precipuo del vivere.
A partire da queste premesse, concordo con Helmut Lachenmann che si batte – da compositore con una lunga storia e non certamente accademica – per la difesa di un’idea di Arte con la “A” maiuscola. Ancora una volta, desidero ribadire che non c’è nulla di elitario in questa presa di posizione. Una canzone di musica leggera e un
Lied di Schubert sono entrambi testimoni del loro tempo in un senso contemporaneamente alto e basso (nulla impedisce che un pubblico “alto” – educato alla musica classica – ascolti e apprezzi una canzone, come anche a me capita di fare; oppure, viceversa, che un pubblico “basso” si avvicini e si lasci persuadere dalla musica d’arte). Ma i due generi hanno finalità artistiche diverse (entrambe di alta esigenza rispetto al canone nel quale s’inscrivono) e implicano – consentendole e attivandole – modalità di fruizione diverse. Il
Lied, per esempio, mette l’accento su un ascolto illuminato del testo poetico da parte del compositore e sulla partecipazione al più alto livello dell’universo poetico con quello musicale, nel quale musica e parola si pongono in rapporti complessi e mutevoli tra di loro, a volte amplificandosi vicendevolmente, a volte stabilendo un voluto e non banale rapporto di distanziazione. Tutto ciò richiede una scrittura musicale e un ascolto particolari, che mettano primariamente al centro l’oggetto della percezione, trasformando così la percezione in comprensione (tentativo di comprensione) dei valori della poesia, della musica e del loro complesso interpenetrarsi: una cosa non consentita, invece, a un ascolto di tipo “secondario”. Per questo motivo penso che
Lied e canzone possano condividere solo parzialmente lo stesso spazio performativo e ricettivo. Il discrimine fondamentale è l’esigenza di “scrittura” (in senso lato, cioè del tenere insieme una complessità di elementi in un equilibro che trascenda questa complessità in una seconda naturalezza), che solleciti o meno un rapporto di tipo conoscitivo e lo distingua da uno puramente seduttivo. Questo comporta una modalità di fruizione nella quale l’ascolto resti “primario” e non diventi, invece, “secondario”: solo l’ascolto “primario” è capace di produrre un effetto di piacere nella comprensione dell’oggetto artistico, senza che questo diventi un piacere sedativo o terapeutico legato all’effetto che l’oggetto o il
setting artistico inducono – dove l’oggetto quasi sparisce nell’attività della percezione. Nell’ascolto “secondario”, lo stato emotivo che ne consegue risulta compatibile con altre attività: la socializzazione, le funzioni primarie quali mangiare, dormire, guardare la televisione, conversare, pratiche private o domestiche. Ovviamente esistono canzoni che sono opere d’arte (proprio perché istituiscono il tipo di fruizione che ho cercato di descrivere più sopra), e opere della cosiddetta musica d’arte che inducono – tra l’altro – anche un effetto terapeutico o seduttivo-sedativo, senza che questi diventino, però, il loro valore ultimo. È questa, certamente, la principale modalità con la quale il vasto pubblico (che si riduce sempre più) ascolta la musica d’arte. Ma è certamente contro questo impoverimento delle modalità di fruizione che i compositori devono battersi con l’alto livello qualitativo di scrittura delle loro opere e l’esigenza delle motivazioni che le determinano.
All’interno dei meccanismi di mediazione della comunicazione musicale gioca un ruolo essenziale non tanto la critica della musica contemporanea, che a mio modo di vedere non gode attualmente di buona salute, quanto la musicologia. Vorrei ora soffermarmi su questo aspetto. La musicologia ha un grande potenziale quando non stabilisce un rapporto tautologico e meramente analitico-ricostruttivo con la partitura e con la genesi di un lavoro compositivo, ma cerca di sintetizzarne i procedimenti costruttivi individuandone alla base una logica comune profonda (se c’è) e leggendola in rapporto alle motivazioni espresse dal compositore (consapevolmente, dunque) e dalla partitura (di cui, a volte, l’autore non è consapevole) e alle implicazioni estetico-filosofiche che ne derivano. Il problema principale della musicologia è, secondo me, quello della sua pertinenza rispetto al testo musicale. Essa soffre, talvolta, di un eccesso d’intellettualizzazione teso a spiegare la superficie musicale, oppure le profondità più recondite di una composizione (entrambe non peculiari alla comprensione del testo o del suo autore se i loro elementi non vengono considerati nel contesto di prassi e abitudini comuni di un determinato genere o stile di appartenenza, quando non diventano astratti indizi e conferma del metodo analitico del musicologo stesso). Invece, un’analisi di tipo genetico (e non puramente formalistica, o filosoficopsicologica) della partitura, se ben condotta (e qui vorrei citare il caso di Nicolas Donin e della sua équipe
Analyse des pratiques musicales all’IRCAM) può essere d’aiuto al compositore, nel senso di consentirgli una presa di coscienza critica di alcuni meccanismi normalmente messi in atto in un processo compositivo, ma anche delle sue abitudini, delle sue propensioni o delle sue idiosincrasie, delle sue coazioni a ripetere, dei nodi sciolti o accuratamente evitati, delle contraddizioni e delle arbitrarietà, del suo rapporto con l’intuizione e con il gusto che plasmano lo stile della sua scrittura.
Vorrei ora fare una considerazione sul rapporto tra il compositore e il panorama musicale del suo tempo, di cui egli è obbligato a tenere conto e verso il quale si deve sentire in dovere di agire. Riallacciandomi a quanto a già detto in apertura, e come mi è già capitato di scrivere
[2], sono tre le parole che ispirano la mia ricerca musicale: curiosità, libertà, coerenza. Ribadisco la mia convinzione: una composizione musicale può essere considerata come la sintesi di un approccio multiculturale a partire dalle condizioni in cui oggi esperiamo la cultura e l’arte (e per di più non indipendentemente dalle influenze dell’industria culturale). L’esito artistico può mostrare, oppure no, questa molteplicità di approcci o di sorgenti d’ispirazione. Sono esistite ed esistono per questo motivo correnti e mode: neoromanticismo, postmodernismo,
cross-over, nuovi
melting-pot (di nuovo, più in termini di sound che di contenuto musicale vero e proprio), ecc. Tendo sempre più a concepire il compositore come un artista multi-identitario, che invece di mescolare i diversi input alla base del suo lavoro in un stile unico e definito, che caratterizzi la sua intera produzione o periodi di essa, sia in grado, in virtù della sua creatività, di esprimersi in maniera diversa di composizione in composizione, come se egli fosse più di una persona nello stesso tempo, in questo assecondando la sua curiosità e il suo desiderio di libertà. In tal modo il compositore può tracciare di pezzo in pezzo, con coerenza intellettuale e competenza di scrittura, un percorso creativo coerente nel quale si possano ritrovare – quasi a posteriori – i segni di uno stile unico e perfettamente personale. Compositori emblematici sono stati in questo senso Stravinskij e Ligeti, e il nostro Maderna (troppe volte sottovalutato). Ma anche Schönberg (tornato a essere un compositore “tonale” alla fine della sua carriera, non avendo mai definitivamente abbandonato i tratti “viennesi” nella sua musica). E, nel passato, certamente Bach e Monteverdi. Vi sono poi l’aspetto sociale e il ruolo culturale che l’artista di oggi svolge all’interno della società del consumo culturale di massa. Ciò che si può dire rispetto alla situazione attuale è che la musica d’oggi sembra non occupare più un posto definito fra le arti e i fenomeni creativi, e ovviamente non ho una risposta chiara, e soprattutto operativa, a questo problema. Difendere il ruolo sociale dell’artista mirando ai meccanismi della società dello spettacolo, dell’educazione e dell’industria culturale è certamente importante. Molto spesso quest’azione non permette di valorizzare la creatività diffusa di questo Paese e non dà risalto al merito di alcuni profili artistici di assoluto rilievo (magari già riconosciuti internazionalmente). Dando per scontato che questa difesa (quasi sindacale) garantisca la sopravvivenza dell’arte e del bisogno partecipato di fruirne, si finisce spesso per avvantaggiare i soliti noti. In realtà, come ho cercato di dire più sopra, così facendo si difende l’idea, borghese e passiva, di un simulacro di pratica artistica e sociale per la quale ancora oggi deve esistere – e prima del valore della sua opera – il grande genio, eroico e incompreso (o anche, nel nostro tempo presente così
glamour, molto compreso) incarnato da qualche figura d’artista considerato erede dei fulgidi tempi passati. Capita così di vedere cantanti confusi con poeti, pianobaristi presi per neo-Pollini o neo-Mozart, politici corrotti e affaristi passati per grandi statisti. E può capitare di vedere artisti lavorare consapevolmente e cinicamente in questa direzione, che è quella del marketing, sostitutivo integrale, da ormai una quindicina d’anni o più, dell’ideologia o del credo estetico delle defunte avanguardie. Come se fosse più importante difendere l’idea che si possa ancora essere artisti nel mondo antipoetico e globalizzato nel quale viviamo, prima ancora di provare a riflettere e a dire come ci si possa esprimere artisticamente oggi. Come se il fatto di marcare un territorio con la presenza di qualche importante personaggio eletto a genio (sovente con il contributo del management personale dell’autore o della lobby nella quale è stato inserito) significasse difendere gli spazi della libertà creativa, totalmente prescindendo dai contenuti con i quali questo spazio è riempito e la libertà, dunque, diventa espressione. In questo senso auspico una figura di artista che cerchi di esprimere una verità (inconosciuta, solo intuita, vissuta, intravista, sentita visionariamente) attraverso una “scrittura” esigente e di alto livello qualitativo che per me equivale a dire: trasformare la complessità dei propri sogni in rapporto alla propria/e visione/i del mondo, mettendoli in una forma artistica trasparente ed estremamente equilibrata (con tutte le accezioni della parola “estremo”), fino a rendere naturale sentire – e ascoltare – quell’intreccio multiforme. Solo mantenendo questa esigenza, senza abbassare la guardia, si può veramente difendere lo spazio di libertà rappresentato dall’espressione artistica. Non certo consacrando qualcuno ad “Artista” o delegando qualcuno a esserlo con più diritto di altri per difendere l’esistenza stessa dell’Arte. L’arte si difende e vive riempiendosi di contenuto e non dell’ego degli artisti.
Per concludere, tornando ancora alle condizioni di diffusione della musica contemporanea e al futuro del musicista, non si può non notare e lamentare la mancanza di un progetto di politica culturale a livello nazionale – ancora più grave in ambito musicale – capace di collegare la valorizzazione del patrimonio all’educazione, alla sua fruizione, alla sua conservazione e alla sua trasmissione. Trasmissione significa anche e soprattutto collegare la Storia al futuro delle nuove generazioni di fruitori e produttori di cultura, vale a dire gli artisti creatori di oggi che nei loro segni e nelle modalità d’interpretazione dei loro lavori conservano attivamente i valori del passato proiettandoli e trasfigurandoli nel futuro, raccordando così la visione tramandata dal patrimonio universale della tradizione alla visionarietà dei propri sogni personali. In questo quadro, potrei dire che in un’epoca in cui le avanguardie, le ideologie e il senso della storia sono finiti, questo futuro dipenderà dai compositori che metteranno al centro del loro lavoro la creatività e la qualità delle proprie opere e non tanto l’importanza della persona che le ha create. Lo stesso discorso vale per le istituzioni, che richiederebbero di essere condotte da persone competenti e motivate ad agire in nome di un patrimonio culturale da conservare e trasmettere in maniera capillare e attiva, e di quello futuro da creare e far vivere: una classe intellettuale e politica disinteressata ad affermare i valori egoici e le virtù salvifiche della propria persona e che non utilizzi il ruolo esercitato per dare lustro agiografico al proprio destino personale. Nell’immediato futuro vedo – ma spero di essere solo esageratamente pessimista – una vita musicale e culturale sempre più soggetta alle
lobbies (editoriali, politiche, artistiche) a difesa della “nicchia” che rappresenterebbe la musica d’arte oggi, nella quale finisce ottusamente per trionfare una visione feticistica e anacronistica di un’artista democraticamente snob di cui proclamare il bisogno in nome dell’indispensabile sopravvivenza dell’Arte, presuntuosamente con la “A” maiuscola.
Stefano Gervasoni, 2016
Note