A un certo punto dello sviluppo del mio linguaggio compositivo, quando ormai i suoi tratti costitutivi si erano delineati, sentii il bisogno di fuggire l’identità che in maniera quasi spontanea si era venuta a costituire.
Per un strano fenomeno di “coazione a non ripetere” – sulle cui cause l’indagine è in corso e credo lo sarà, senza esito, fino alla fine della mia attività di compositore – si faceva più forte l’esigenza di interrompere un percorso che avrebbe portato solamente all’affinamento continuo degli strumenti compositivi fino ad allora messi a punto e che mi avrebbe così permesso di creare con più facilità e prolificità composizioni riconoscibili per uno stile o una cifra ormai maturi. Va da sé che questo mi avrebbe anche inserito in un sistema di committenza-produzione-diffusione-consumo di cui avrei potuto controllare i meccanismi, a maggior profitto della mia carriera.
L’esigenza che sentivo più forte e necessaria, invece, era quella di andare contro le mie abitudini e le mie inclinazioni – forzandole con obiettivi di opposta tendenza, al limite della contraddizione – per evitare che si cristallizzassero e riducessero la composizione al semplice ripercorrere una strada ormai tracciata. Non volevo che ogni composizione diventasse l’elemento riconoscibile di una serie, perché l’affinamento linguistico di un’identità arrivata a maturazione significava per me la paralisi creativa: una ripetizione (al limite una variante) in cui il piacere o il dolore – o il piacere della fatica di ogni atto di scoperta o di scelta – si inserivano in un sistema di aspettative prestabilite. Non volevo scrivere perché ero riconosciuto in un certo modo. Non volevo, cioè, assecondare la richiesta di scrivere motivata del fatto che la mia identità aveva acquisito diritto di cittadinanza e quindi ero ascoltato e riascoltato perché non tradivo l’identità che avevo proposto al mio pubblico in precedenza.
Se nel 1992 parlavo della composizione come minuzioso “esercizio di osservazione” (nel mio articolo “Considérer l’évident comme énigmatique”), dal 1996, suppergiù, a oggi la composizione tende a diventare sempre più per me “esercizio di disabitudine”: una costante messa in discussione delle mie abitudini compositive e delle altrui abitudini di ascolto.
Stimolo vitale dell’immaginazione compositiva e reazione all’attuale situazione di un panorama della composizione sempre più cristallizzato in mode, tendenze, scuole (quanto più si riduce l’offerta di musica colta contemporanea), questo atteggiamento si traduce sul piano concreto della composizione in due modi:
- nella ricerca di un’idea, di materiali, di un sistema e di processi compositivi propri ed esclusivi per ogni pezzo;
- nella volontà di oltrepassare l’identità stilistica determinata dall’incontro dinamico di opzioni inerenti il gusto, l’inclinazione, le circostanze occasionanti la composizione con le scelte compositive di cui al punto precedente per mezzo di scelte linguistiche volutamente non coerenti con il sistema che ha creato l’identità.
The Road Not Taken
Robert Frost
Two roads diverged in a yellow wood,
And sorry I could not travel both
And be one traveler, long I stood
And looked down one as far as I could
To where it bent in the undergrowth;
[...]
Strada non presa è forse il pezzo dove in maniera più emblematica agisce questo conflitto dinamico.
Arrivato a circa due terzi della composizione il quartetto sembra prendere una piega irrevocabile e i passaggi veloci di linee discendenti in pseudo ottave, che fino a quel momento si erano fatti solo intravedere, dominano l’intera composizione fino alla fine. Se, dunque, fino al punto di svolta, il quartetto è caratterizzato da una identità che è riconducibile alla dimensione
al di là della nota (per giocare col titolo che
Voix Nouvelles diede al concerto che accolse la prima di questo pezzo), tutta la seconda parte può essere considerata il tentativo di riappropriarsi di una dimensione sonora più consueta, quella dell’
al di qua della nota, ma attraverso i modi della prima parte, che è la sua dimensione antagonista.
Figure e gesti perfettamente consueti si dematerializzano: perdono rilievo, peso sonoro, funzione retorica e architettonica. Quella dell’al di là della nota – il suono, che è prima e dopo, e nascosto entro ogni atto linguistico musicale – è la dimensione abituale del mio modo di fare musica. Ma è anche (o ancora) considerato la strada meno battuta dalla creazione musicale contemporanea, tuttora in gran parte vincolata a un’idea di musica come fatto linguistico, con le sue convenzioni da rispettare o trasgredire per produrre senso, per creare un discorso fondato su entità distinguibili – le note appunto – e su un sistema di notazione.
Nel mio caso la strada non presa è dunque quella secondaria, il sentiero meno battuto, ma con più facilità percorso e diventato familiare, tanto che ho desiderato, a un certo punto, abbandonarlo per imboccare la strada principale, con la scarsa dimestichezza di chi su quella strada ha solo marginalmente camminato. La strada non presa è l’abbandono di un percorso solidamente avviato nel mondo dell’al di là della nota per intraprendere con la curiosità e la freschezza di sguardo di uno straniero, nuovo al vecchio continente, un percorso nel meno solido e infido mondo della nota.
Come se un esploratore antartico, attrezzatosi di tutto punto per l’ennesima spedizione nella terra dei ghiacci, decidesse invece, senza cambiare equipaggiamento e atteggiamento, di fare un lunga passeggiata in città durante un qualsiasi giorno feriale.
The Road Not Taken
Robert Frost
[...]
And both that morning equally lay
In leaves no step had trodden black.
Oh, I kept the first for another day!
Yet knowing how way leads on to way,
I doubted if I should ever come back.
I shall be telling this with a sigh
Somewhere ages and ages hence:
Two roads diverged in a wood, and I –
I took the one less traveled by,
And that has made all the difference.
Stefano Gervasoni, 3.9.01
A un certain point du développement de mon langage compositionnel, quand désormais ses traits constitutifs s’étaient tracés, je sentis le besoin de fuir l’identité qui s’était constituée de manière quasi spontanée.
Par un étrange phénomène de contrainte de « non répétition » - dont l’enquête sur les causes est en cours et je crois, sans hésiter, qu’elle le restera jusqu’à la fin de mon activité de compositeur – l’exigence se faisait toujours plus forte d’interrompre un parcours qui aurait porté seulement à l’affinement continuel des outils de composition jusqu’alors mis au point et qui m’aurait ainsi permis de créer avec plus de facilité et de prolificité des compositions reconnaissables par un style ou un chiffre et désormais mûries (il va de soit que ceci m’aurait aussi inséré dans un système de commande – production – diffusion - consommation dont j’aurais pu contrôler les mécanismes pour le plus grand profit de ma carrière).
Inversement l’exigence que je sentais plus forte et nécessaire, était celle d’aller contre mes habitudes et inclinations – en les forçant avec des objectifs de tendance opposée, à la limite de la contradiction - pour éviter que la composition se cristallise et se réduise au simple fait de reparcourir une route désormais tracée. Je ne voulais pas que chaque composition devienne l’élément reconnaissable d’une série, parce que l’affinement linguistique d’une identité arrivée à maturation signifiait pour moi la paralysie créative : une répétition (à la limite, une variante) dans laquelle le plaisir ou la douleur (où le plaisir de l’effort de chaque acte de découverte ou de choix) s’inséraient dans un système d’expectative préétabli. Je ne voulais pas écrire parce que j’étais reconnu dans un certain mode. Je ne voulais ainsi favoriser la demande d’écrire motivée par le fait que mon identité avait acquis droit de cité et donc j’étais écouté et réécouté parce que je ne trahissais pas l’identité que j’avais précédemment proposée à mon public.
Si en 1992, dans mon article « Considérer l’évident comme énigmatique », je parlais de la composition comme un minutieux « exercice d’observation », de 1996 environ à aujourd’hui, la composition tend à devenir toujours plus pour moi un « exercice de désaccoutumance » : une mise en discussion constante de mes habitudes de composition et des habitudes d’écoute d’autrui. Stimulant vital de l’imagination compositionnelle, et réaction à l’actuelle situation d’un panorama de la composition toujours plus cristallisée en modes, tendances ou écoles (d’autant plus quand l’offre de musique contemporaine savante se réduit), cette attitude se traduit sur le plan concret de la composition par deux modes :
- dans la recherche d’une idée, de matériaux, d’un système et de procédés de composition propres et exclusifs pour chaque pièce ;
- dans la volonté d’outrepasser l’identité stylistique déterminée par la rencontre dynamique d’options inhérentes (goût, inclination, circonstances provoquant la composition) avec les choix de composition citées au point précédent, par le moyen de choix linguistiques qui sont délibérément incohérents avec le système créateur de l’identité.
The Road Not Taken
Robert Frost
Two roads diverged in a yellow wood,
And sorry I could not travel both
And be one traveler, long I stood
And looked down one as far as I could
To where it bent in the undergrowth;
[...]
Strada non presa est peut être la pièce où ce conflit dynamique agit de manière la plus emblématique. Arrivé environ aux deux tiers de la composition, le quatuor semble prendre une tournure irrévocable et les passages rapides de lignes descendantes en pseudo-octaves, qui jusqu’à ce point, s’étaient fait seulement entrevoir, dominent l’entière composition jusqu’à la fin. Si donc jusqu’à ce tournant, le quatuor est caractérisé par une identité qui est rapportable à la dimension
au-delà de la note ( pour jouer avec le titre que
Voix Nouvelles a donné au concert qui a vu la création de cette pièce ), toute la seconde partie peut être considérée comme la tentative de se réapproprier une dimension sonore plus habituelle, celle d’
en deçà de la note, mais à travers les modes de la première partie qui est sa dimension antagoniste.
Les figures et les gestes parfaitement habituels se dématérialisent : ils perdent du relief, du poids sonore, de la fonction rhétorique et architectonique. Celle qui est au-delà de la note - le son qui est avant et après, et caché entre chaque acte de langage musical - est la dimension habituelle de mon mode de faire la musique. Mais il est aussi (ou encore) considéré comme la voie « la moins battue » de la création musicale contemporaine, toujours en grande partie bloquée par une idée de la musique comme fait linguistique, avec ses conventions à respecter ou à transgresser pour produire du sens, pour créer un discours fondé sur des entités distinctives – les notes justement – et sur un système de notation.
Dans mon cas, la voie non prise est donc la voie secondaire, le sentier moins battu, mais parcouru avec plus de facilité et devenu familier, tant que j’ai désiré à un certain moment le quitter pour m’engager sur la route principale, sur laquelle j’ai cheminé seulement marginalement avec une plus faible familiarité. La voie non prise est l’abandon d’un parcours solidement lancé - le monde de « l’au delà de la note » - pour entreprendre avec la curiosité et la fraîcheur du regard d’un étranger nouveau sur le vieux continent, un parcours dans le monde moins solide et périlleux de la note.
Comme si un explorateur de l’antarctique, équipé de toute part pour la énième expédition sur la terre des glaces, décidait au contraire, sans changer d’équipement et d’attitude, de faire une longue promenade en ville un jour de semaine.
The Road Not Taken
Robert Frost
[...]
And both that morning equally lay
In leaves no step had trodden black.
Oh, I kept the first for another day!
Yet knowing how way leads on to way,
I doubted if I should ever come back.
I shall be telling this with a sigh
Somewhere ages and ages hence:
Two roads diverged in a wood, and I –
I took the one less traveled by,
And that has made all the difference.
Stefano Gervasoni, 3.9.01 (French translation by Catherine Kollen et Céline Oudoire)